CORTE DI APPELLO DI FIRENZE 
                        PRIMA SEZIONE CIVILE 
 
    La  Corte  riunita  in  camera  di  consiglio,  in  persona   dei
magistrati: dott. Pietro Mascagni - Presidente, dott. Nicola  Antonio
Dinisi - consigliere  relatore,  dott.  Adone  Orsucci,  consigliere,
nella causa iscritta al n. 346/14 R.V.G. promossa da Rabizzi Stefano,
Borghi Fabio, Pisaneschi Andrea, Costantini Graziano e Monaci Alfredo
(avv.  S.  Menchini,  A.  Galante,  G.L.  De  Angelis),   contro   la
Commissione nazionale per le societa' e la borsa (avv. S. Providenti,
M.L. Ermetes, R. Vampa, E. Garzia); con l'intervento del P.G.  Avente
ad oggetto: opposizione ai sensi dell'art. 195,  decreto  legislativo
28 febbraio 1998, n. 58; trattenuta in decisione all'udienza  del  28
novembre 2014, ha emesso la seguente ordinanza. 
    La Commissione nazionale per le societa' e la borsa (CONSOB)  con
delibera n. 18856 del 9 aprile 2014 ha applicato a  Stefano  Rabizzi,
Fabio  Borghi,  Andrea  Pisaneschi,  Graziano  Costantini  e  Alfredo
Monaci, in qualita' di componenti del  consiglio  di  amministrazione
della Banca Monte dei Paschi di Siena nel periodo  dal  1°  settembre
2010 al 27 aprile 2012, la sanzione amministrativa  di  €  135.000,00
ciascuno, di cui: 
        1)  €  45.000,00  per  violazione,   con   riferimento   alle
riscontrate irregolarita' relative alla disciplina dei  conflitti  di
interesse, dell'art. 21, comma 1-bis, lettera  a)  del  TUF  e  degli
articoli 23 e 25 del regolamento congiunto Banca d'Italia/CONSOB  del
29 ottobre 2007, che impongono agli  intermediari  di  adottare  ogni
misura ragionevole per identificare i conflitti  di  interesse  e  di
gestirli  in  modo  da  evitare  che  incidano  negativamente   sugli
interessi dei clienti; 
        2)  €  45.000,00  per  violazione,   con   riferimento   alle
riscontrate irregolarita' relative alla  valutazione  di  adeguatezza
delle operazioni, del  combinato  disposto  dell'art.  21,  comma  1,
lettera d) del  decreto  legislativo  del  TUF  e  dell'art.  15  del
regolamento congiunto Banca d'Italia/CONSOB del 29 ottobre 2007,  che
impongono  agli  intermediari  di  dotarsi  di  procedure  idonee  ad
assicurare il  corretto  svolgimento  dei  servizi  di  investimento,
nonche' dell'art. 21, comma 1, lettera a) del TUF,  che  impone  agli
intermediari di comportarsi con diligenza, correttezza e  trasparenza
per servire al meglio l'interesse dei clienti, e degli articoli 39  e
40  del  regolamento  CONSOB  n.  16190  del  29  ottobre  2007,  che
disciplinano  la  profilatura  del  cliente  e  la   valutazione   di
adeguatezza; 
        3)  €  45.000,00  per  violazione,   con   riferimento   alle
irregolarita' relative alle modalita' del  pricing  del  prodotti  di
propria emissione, del combinato  disposto  dell'art.  21,  comma  1,
lettera a) del TUF, che impone agli intermediari di  comportarsi  con
diligenza,  correttezza  e  trasparenza   per   servire   al   meglio
l'interesse dei clienti, nonche' l'art. 21, comma 1, lettera  d)  del
TUF  e  dell'art.  15,  comma  1,  del  regolamento  congiunto  Banca
d'Italia/CONSOB del 29 ottobre 2007, che impongono agli  intermediari
di dotarsi di  procedure,  anche  di  controllo  interno,  idonee  ad
assicurare l'efficiente svolgimento dei servizi  e  delle  attivita'.
Avverso tale delibera i predetti hanno proposto opposizione davanti a
questa Corte ex art. 195, comma 4 del decreto legislativo n. 58/1998,
deducendo, oltre a motivi di merito, motivi  attinenti  ai  connotati
del procedimento sanzionatorio dinnanzi alla CONSOB e alla disciplina
dell'opposizione. 
    In  via  preliminare  hanno  sollecitato  la  Corte  a  sollevare
questione di legittimita' costituzionale dell'art.  195  del  decreto
legislativo  n.  58/1998  sia  per  contrasto  con  l'art.  6   della
Convenzione dei diritti dell'uomo in relazione  all'art.  117  Cost.,
sia per violazione dell'art. 3 della Costituzione. 
    Sotto il primo profilo hanno evidenziato  che,  mentre  l'art.  6
della Convenzione stabilisce che ogni persona ha diritto a che la sua
causa  sia  esaminata  equamente,  pubblicamente,  entro  un  termine
ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale costituito per
legge e che la sentenza debba essere resa pubblicamente (salvo che in
circostanze speciali la pubblicita' possa  portare  pregiudizio  agli
interessi  della  giustizia),  l'art.  195,  comma  7   del   decreto
legislativo n.  58/1998  dispone  che  la  Corte  di  appello  decide
sull'opposizione  in  camera  di  consiglio,  sentito   il   pubblico
ministero, con decreto motivato. 
    Di conseguenza, non essendovi dubbio che il procedimento camerale
si svolge in camera di consiglio e non in pubblica udienza ne deriva,
secondo gli  opponenti,  che  l'art.  195,  comma  7  deve  ritenersi
incostituzionale per violazione  dell'art.  6  della  Convenzione  in
relazione all'art. 117 Cost., nella parte in cui non prevede  che  il
procedimento di opposizione si svolga in pubblica udienza. 
    Al riguardo hanno segnalato  che  elementi  a  conforto  di  tale
assunto possano trarsi dalla sentenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo in data 4 marzo  2014  (Grande  Stevens/Italia  ricorso  n.
18640/10) con la quale si e' affermato che: 
    a) in conformita' ad un orientamento da tempo  affermatosi  nella
giurisprudenza della Corte anche le sanzioni amministrative  irrogate
dalla CONSOB si configurano come sanzioni di  natura  sostanzialmente
criminale, con conseguente applicabilita' delle garanzie  del  giusto
processo  enunciate  dall'art.  6  della  Convenzione   dei   diritti
dell'uomo ed, in particolare, del principio di parita' di trattamento
fra  accusa   e   difesa,   imparzialita'   dell'organo   giudicante,
presunzione di innocenza, diritto di informazione sulla  natura  e  i
motivi dell'accusa, ecc.; 
    b) in riferimento al difetto di contraddittorio sulle conclusioni
che l'organo istruttorio trasmette  alla  Commissione,  le  procedure
previste dalla CONSOB non soddisfano appieno le previsioni  dell'art.
6 della Convenzione per cio' che concerne la  parita'  tra  accusa  e
difesa e la tenuta di un'udienza pubblica che permetta  un  confronto
orale; 
    c) gli  uffici  della  CONSOB  deputati  allo  svolgimento  delle
attivita' istruttorie e la Commissione non sono che articolazioni  di
un medesimo organo amministrativo che agiscono sotto l'autorita'  del
medesimo presidente, con la conseguenza di un  esercizio  consecutivo
delle funzioni di inchiesta e di giudizio in  seno  ad  una  medesima
istituzione, in materia penale, non compatibile con  le  esigenze  di
imparzialita' previste dall'art. 6, comma 1 della Convenzione. 
    Ne deriva, dunque, ad avviso  degli  opponenti,  che  il  sistema
dell'art. 1965, comma 7, del TUF si pone in conflitto con  l'art.  6,
comma 1 della Convenzione, con la conseguenza che, non potendo questa
Corte procedere all'autonoma disapplicazione delle norme di legge, si
rende necessario sollevare la questione  di  costituzionalita'  delle
disposizioni sopra richiamate, ai fine di permettere ai ricorrenti di
poter usufruire di un processo equo e rispettoso dei principi imposti
in sede europea. 
    Sotto il secondo profilo gli opponenti hanno rilevato che per  le
sanzioni amministrative contemplate dall'art. 195 del TUF e' prevista
una disciplina dell'opposizione del tutto diversa da quella  prevista
in via generale per le  sanzioni  amministrative.  Per  le  prime  e'
previsto  che  l'opposizione  venga  proposta  dinanzi   alla   Corte
d'appello e che il giudizio di opposizione si svolga secondo il  rito
camerale; per le seconde, ex art. 6, decreto legislativo n. 150/2011,
e' previsto il rito del lavoro. Giusta  la  formulata  eccezione,  la
normativa speciale prevista per le  sanzioni  CONSOB  dall'art.  195,
commi 4 e 7 TUF sarebbe costituzionalmente illegittima per violazione
dell'art.  3  Cost.,  in  quanto  a  fronte  di  situazioni  omogenee
sarebbero  previste  discipline  sensibilmente  ed  irragionevolmente
diverse. In particolare  il  diverso  grado  di  tutela  dei  diritti
nell'uno  rispetto  all'altro   caso,   sarebbe   evidenziato   dalla
previsione, per le sanzioni CONSOB, di un unico grado di  merito  cui
si  accompagnerebbe  una  cognizione  necessariamente   di   qualita'
inferiore propria del procedimento camerale. 
    Si e' costituita la CONSOB che  ha  confutato  le  argomentazioni
difensive degli opponenti in relazione a tutti i profili dedotti e ha
chiesto il rigetto del ricorso. 
    La Corte rileva quanto segue. 
    Il procedimento di opposizione dinanzi alla Corte d'appello (art.
195, comma 4 del decreto legislativo n. 58/1998)  e'  camerale,  come
reso evidente dall'art. 195, comma 7 del decreto  legislativo  citato
(«La Corte d'appello decide sull'opposizione in camera di  consiglio,
sentito il pubblico ministero, con decreto motivato»). 
    L'opponente nella sostanza deduce l'illegittimita' della delibera
sanzionatoria  per  carenze  di  contraddittorio  che  si   collocano
all'interno del procedimento CONSOB, ma non pare corretto valutare le
garanzie di difesa per segmenti del procedimento, prescindendo  dalla
considerazione della fase  eventuale,  a  cognizione  piena,  dinanzi
all'autorita' giudiziaria. Al riguardo occorre richiamare i  principi
espressi dalla Corte EDU nella detta sentenza n. 18640  del  4  marzo
2014 resa in un caso in cui si discuteva di sanzioni per illeciti  ex
art. 187-ter TUF dalla Corte stessa qualificate come  sostanzialmente
di natura  penale.  Giova  al  riguardo  ricordare  che  giusta  tale
sentenza (cfr. paragrafo 94) «... al fine di stabilire la sussistenza
di una  "accusa  in  materia  penale",  occorre  tener  presente  tre
criteri: la  qualificazione  giuridica  della  misura  in  causa  nel
diritto nazionale, la natura stessa di quest'ultima, e la natura e il
grado di severita' della  "sanzione"  (Engel  e  altri  contro  Paesi
Bassi, 8 giugno 1976, paragrafo 82, serie A n.  22).  Questi  criteri
sono peraltro  alternativi  e  non  cumulativi:  affinche'  si  possa
parlare di "accusa in materia penale" ai sensi dell'art. 6, paragrafo
1, e' sufficiente che il  reato  in  causa  sia  di  natura  "penale"
rispetto alla  Convenzione,  o  abbia  esposto  l'interessato  a  una
sanzione che, per natura e livello  di  gravita',  rientri  in  linea
generale nell'ambito della "materia penale". Cio'  non  impedisce  di
adottare un  approccio  cumulativo  se  l'analisi  separata  di  ogni
criterio non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito
alla sussistenza di una "accusa in materia  penale"  (Jussila  contro
Finlandia [GC], n. 73053/01, paragrafi 30 e  31,  CEDU  2006-XIII,  e
Zaicevs contro Lettonia, n. 65022/01, paragrafo 31,  CEDU  2007-IX  -
estratti)». Parimenti  occorre  richiamare  la  giurisprudenza  della
Corte costituzionale (in particolare sentenza n. 104 del 2014) per la
quale tutte le misure di carattere punitivo afflittivo (ivi  comprese
evidentemente  quelle  che  l'ordinamento  interno   qualifica   come
sanzioni  amministrative)  devono  essere  soggette   alla   medesima
disciplina della sanzione penale in senso stretto (principio espresso
agli  effetti   della   irretroattivita'   delle   disposizioni   che
introducono sanzioni amministrative). 
    Premesso che non e' incompatibile con la Convenzione affidare  la
repressione di violazioni ad una autorita' amministrativa quale e' la
CONSOB (paragrafo 138 sentenza Corte EDU  cit.),  il  rispetto  della
Convenzione, a prescindere da carenze di contraddittorio che  possano
essersi verificate in alcune fasi del procedimento, viene  assicurato
dalla possibilita' di ricorrere ad un giudice dotato di giurisdizione
piena quale e' la Corte d'appello. La conclusione cui  e'  giunta  la
Corte EDU e' stata,  quindi,  nel  senso  che  «...  il  procedimento
dinanzi alla CONSOB non soddisfacesse tutte le esigenze  dell'art.  6
della Convenzione, soprattutto per quanto riguarda la  parita'  della
armi tra accusa e difesa e il  mancato  svolgimento  di  una  udienza
pubblica che  permettesse  un  confronto  orale»;  nonostante  quanto
precede la Corte ha escluso una  automatica  violazione  dell'art.  6
della Convenzione proprio in quanto: 
    1) non era contrario alla Convenzione che le sanzioni, giusta  la
normativa interna, fossero inflitte  da  un'autorita'  amministrativa
quale e' la CONSOB; 
    2) occorreva che i soggetti destinatari passivi dei provvedimenti
sanzionatori potessero impugnarli dinanzi ad un tribunale in grado di
dare una decisione nel rispetto dell'art. 6 della Convenzione; 
    3) cio' era avvenuto nella fattispecie in quanto gli  interessati
si erano avvalsi della possibilita' di impugnare le sanzioni inflitte
dinanzi alla Corte d'appello di Torino; il problema secondo la  Corte
EDU atteneva allo stabilire se tale  Corte  d'appello  fosse  «organo
dotato di piena giurisdizione»  ai  sensi  della  sua  giurisprudenza
(questione risolta in  senso  affermativo),  e  se  l'udienza  svolta
dinanzi  a  tale  giudice  fosse  stata  pubblica;  e'   proprio   in
riferimento alla assenza di udienza pubblica  che  la  Corte  EDU  e'
giunta alla conclusione della  violazione  della  Convenzione  («161.
Alla luce di quanto esposto,  la  Corte  ritiene  che,  anche  se  il
procedimento dinanzi alla CONSOB non ha soddisfatto  le  esigenze  di
equita' e di imparzialita' oggettiva dell'art. 6 della Convenzione, i
ricorrenti hanno beneficiato del successivo controllo da parte di  un
organo indipendente e imparziale dotato di  piena  giurisdizione,  in
questo caso la corte d'appello di Torino. Tuttavia, quest'ultima  non
ha tenuto un'udienza pubblica, fatto che,  nel  caso  di  specie,  ha
costituito  una   violazione   dell'art.   6,   paragrafo   1   della
Convenzione.»). La pubblicita'  dell'udienza,  nell'assunto  espresso
dalla Corte EDU in tale decisione, ha, quindi, assunto  una  funzione
centrale e di necessaria chiusura del sistema delle garanzie. 
    Peraltro  la  giurisprudenza  della  Corte  EDU  in  ordine  alla
imprescindibilita' della udienza pubblica agli effetti  del  rispetto
dell'art. 6, paragrafo 1 della Convenzione non esprime  un  principio
assoluto valido per tutti i casi. Ad esempio nella sentenza  in  data
23 novembre 2006 nel caso Jussila contro Finlandia la Corte EDU  dopo
aver  ribadito  che  tenere  un'udienza  pubblica  e'  un   principio
fondamentale posto dall'art. 6 della Convenzione e che tale principio
e' di particolare importanza nella materia penale, ha  osservato  che
«... l'obbligo di tenere un'udienza pubblica non e' assoluto.  L'art.
6  non  esige  necessariamente  di  tenere   udienza   in   tutti   i
procedimenti. Cio' vale, in particolare, per i casi che non sollevano
questione di credibilita' o che non scatenano controversia sui  fatti
che necessitano di una udienza e per  i  quali  i  tribunali  possono
pronunciarsi in modo equo e ragionevole sulla base delle  conclusioni
presentate dalle parti e di altri  elementi.  Inoltre,  la  Corte  ha
riconosciuto che le  autorita'  nazionali  possono  tener  conto  dei
problemi di efficienza ed economicita', ritenendo, per  esempio,  che
l'organizzazione  sistematica  di  dibattiti  possa   costituire   un
ostacolo alla particolare diligenza richiesta in materia di sicurezza
sociale ed,  in  definitiva,  impedire  il  rispetto  di  un  termine
ragionevole ai sensi dell'art. 6, paragrafo 1, ...»; ancora  in  tale
sentenza e' stato osservato che «... in un procedimento di  prima  ed
ultima istanza,  l'udienza  deve  essere  tenuta,  salvo  circostanze
eccezionali che giustifichino di farne a meno ... l'esistenza di tali
circostanze dipende in gran parte dalla natura dei problemi di cui  i
tribunali sono investiti, e non dalla frequenza dei casi  in  cui  si
presentano ...». 
    La sanzione inflitta agli opponenti deve  essere  qualificata  di
natura  lato  sensu  penale,  nonostante  l'ordinamento  interno   la
qualifichi formalmente come sanzione amministrativa, in  quanto  sono
vincolanti l'interpretazione data dalla Corte EDU e l'indicazione  da
essa fornita dei criteri in relazione ai quali  vagliare  l'effettiva
natura di una sanzione. Infatti, chiarito che la qualificazione  data
dall'ordinamento  interno  non  e'  dirimente,  in   quanto   occorre
verificare se una sanzione sia di natura «penale» agli effetti  della
applicazione  della  Convenzione,  non  puo'  non   considerarsi   la
particolare gravita' afflittiva della  sanzione  pecuniaria  prevista
dall'art. 190 del decreto legislativo n. 58/1998, per  la  violazione
dell'art. 21 dello stesso decreto legislativo  in  un  importo  da  €
2.500,00 ad € 250.000,00 (dovendosi aver riguardo, agli  effetti  che
qui interessano, alla sanzione edittale e non a  quella  in  concreto
irrogata in quanto, ovviamente, l'individuazione della  natura  della
sanzione  prescinde  dalle  circostanze   che   ne   determinano   la
modulazione fra il minimo  ed  il  massimo).  Convince  ulteriormente
della detta natura lato sensu penale l'esclusione, disposta dall'art.
190 del decreto legislativo n. 58/1998 dell'applicabilita'  dell'art.
16, legge n. 689/1981 (pagamento in misura ridotta), e,  soprattutto,
il regime pubblicitario proprio delle sanzioni  CONSOB.  Al  riguardo
occorre  ricordare  che  giusta  l'art.  195,  comma  3  del  decreto
legislativo  n.  58/1998  «Il  provvedimento  di  applicazione  delle
sanzioni e'  pubblicato  per  estratto  nel  Bollettino  della  Banca
d'Italia o della CONSOB. La Banca d'Italia o la CONSOB, tenuto  conto
della natura della violazione e degli  interessi  coinvolti,  possono
stabilire modalita' ulteriori per dare pubblicita' al  provvedimento,
ponendo le relative spese  a  carico  dell'autore  della  violazione,
ovvero escludere la pubblicita' del provvedimento, quando  la  stessa
possa mettere gravemente a rischio i mercati finanziari o arrecare un
danno sproporzionato alle parti»: la previsione di  pubblicita'  (nel
caso in esame e' stata confermata la pubblicita' normalmente prevista
per estratto  nel  Bollettino  della  CONSOB),  estensibile  a  forme
ulteriori   (quali   la   pubblicita'   su   quotidiani),   evidenzia
ulteriormente il carattere  afflittivo  della  sanzione,  in  ragione
delle ripercussioni negative sull'immagine del soggetto  colpito  dal
provvedimento sanzionatorio. 
    Le considerazioni che  precedono  evidenziano  una  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  195,  comma  7  del  decreto
legislativo n. 58/1998, norma che potrebbe essere  in  contrasto  con
art. 117 Cost. in quanto non conforme all'art. 6 della Convenzione. 
    La questione oltre ad essere  non  manifestamente  infondata,  e'
rilevante in questo giudizio in  quanto,  accertata  la  natura  lato
sensu  penale  della  sanzione  giusta  i   vincolanti   criteri   di
valutazione posti dalla Corte EDU,  dovendo  questa  Corte  d'appello
necessariamente seguire il rito camerale imposto clan'art. 195, comma
7 del decreto legislativo n. 58/1998 (senza  che  sia  possibile  una
diversa  interpretazione,  salvo  una  inammissibile  disapplicazione
della norma, e senza che sia possibile introdurre il correttivo della
pubblicita' dell'udienza che, di per se', renderebbe non camerale  il
procedimento),  ed  essendo  il  rito  camerale,   per   definizione,
caratterizzato dalla assenza di  una  pubblica  udienza,  essendo  il
giudizio di opposizione, secondo la giurisprudenza  della  Corte  EDU
suscettibile di integrare, in presenza di determinate condizioni,  il
sistema di garanzie che deve connotare il procedimento sanzionatorio,
ove un giudizio che si svolge con il rito camerale fosse al  riguardo
inidoneo, la conclusione obbligata sarebbe l'eccepita  illegittimita'
del procedimento sanzionatorio e del provvedimento sanzionatorio  che
lo conclude. 
    Preme rilevare che il sospetto di non conformita' a  Costituzione
(art.  117,  comma  1)  investe  l'art.  195,  comma  7  del  decreto
legislativo n. 58/1998, e non anche le norme del codice di  rito  che
prevedono il rito camerale. La Corte costituzionale in ordine a  tale
rito si e'  gia'  espressa,  ed  occorre  segnatamente  ricordare  la
sentenza n. 543/1989 con la quale e' stato affermato che  secondo  la
costante giurisprudenza  della  Corte  stessa  «...  il  procedimento
camerale non e' di per se' in contrasto con il diritto di difesa,  in
quanto l'esercizio di questi ultimo e' variamente configurabile dalla
legge,  in  relazione  alle  peculiari  esigenze  dei  vari  processi
"purche' ne vengano assicurati lo scopo  e  la  funzione",  cioe'  la
garanzia del contraddittorio, in modo che sia escluso ogni ostacolo a
far valere le ragioni delle parti»; nella stessa  sentenza  e'  stato
osservato che «... L'adozione della  procedura  camerale,  anche  nei
casi  in  cui  si  e'  in  presenza  di  elementi  di   giurisdizione
contenziosa, risponde  dunque  a  criteri  di  politica  legislativa,
inerenti  alla  valutazione   che   il   legislatore   compie   circa
l'opportunita' di adottare determinate forme processuali in relazione
alla natura degli interessi da regolare ed, in  quanto  tale,  sfugge
quindi al sindacato di questa Corte "nei limiti in  cui,  ovviamente,
non si risolve nella violazione di specifici precetti  costituzionali
e non sia viziata da irragionevolezza" (ordinanza n. 748 del  1988  e
sentenza n. 142 del  1970)»;  la  Corte  costituzionale  nella  detta
sentenza, non ha mancato di rilevare che il rito camerale  non  viola
il diritto di prova in quanto «... anche nel rito camerale in appello
e' possibile acquisire ogni specie di prova precostituita e procedere
alla formazione di qualsiasi prova costituenda, purche'  il  relativo
modo di assunzione - comunque non formale nonche' atipico -  risulti,
da  un  lato,  sempre  compatibile  con  la   natura   camerale   del
procedimento, e, dall'altro, non violi il  principio  generale  della
idoneita' degli atti processuali al  raggiungimento  del  loro  scopo
...». 
    La questione pero' non e' quella di stabilire se il rito camerale
assicuri sufficientemente la difesa  od  il  contraddittorio,  bensi'
quella di stabilire se un'opposizione avanti ad un giudice dotato  di
giurisdizione piena ma vincolato al  rito  camerale  possa  integrare
carenze del procedimento sanzionatorio CONSOB. Una risposta  negativa
al  quesito  porrebbe  il  detto  art.  195,  comma  7  del   decreto
legislativo in contrasto con l'art. 6, paragrafo 1 della  Convenzione
e, quindi, con  l'art.  117  Cost.  Il  dubbio  al  riguardo  non  e'
manifestamente infondato stante  la  ricordata  giurisprudenza  della
Corte EDU laddove ha segnalato la particolare importanza dell'udienza
pubblica quando si discute di sanzioni  penali;  certo,  come  si  e'
detto, il principio  della  pubblicita'  dell'udienza  non  e'  stato
espresso in termini assoluti, e la necessita' o meno di una  pubblica
udienza va ricostruita  in  relazione  alla  natura  della  questione
controversa,  ma  tale  operazione  si  risolve   nel   giudizio   di
conformita'  all'art.  117,  comma  1  Cost.   della   detta   norma,
conformita' sulla quale questa Corte non puo' non esprimere un dubbio
sulla base della giurisprudenza della Corte EDU  (analoga  questione,
per altro, risulta sollevata recentemente dalla  Corte  d'appello  di
Genova; con ordinanza 10 dicembre 2014 - 8 gennaio 2015). 
    Il secondo profilo di costituzionalita' sollevato dagli opponenti
si pone su di un piano diverso da quello per il quale viene sollevata
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 195, comma  7  TUF
in  relazione  all'art.  117,  comma  1  Cost.,  ma  un  rapporto  e'
innegabile in quanto  ove  fosse  dichiarata  incostituzionale  detta
norma del TUF rimarrebbe  automaticamente  assorbito  questo  secondo
profilo di costituzionalita'. 
    Ragionando, quindi, nell'ottica di una eventuale affermazione  di
conformita' dell'art. 195, comma 7 TUF agli obblighi derivanti  dalla
Convenzione EDU e quindi alla Costituzione, occorre  premettere  che,
seguendo la prospettazione della parte che ha sollevato  l'eccezione,
affermando essa che l'art. 3 Cost. imporrebbe disciplina  processuale
eguale per tutte le situazioni  omogenee,  il  problema  investirebbe
pesantemente tutto il nostro sistema  processuale  caratterizzato  da
una  miriade  di  riti  (problema  al  quale  recentemente,  e   solo
parzialmente, e' stato posto rimedio con il  decreto  legislativo  n.
150/2011, c.d. decreto taglia riti). 
    Il problema, pero', e' diverso in quanto la diversita' di riti di
per se' non e' idonea a determinare una disparita' di trattamento che
possa assumere rilievo costituzionale, ove ad essa  non  consegua  un
grado di tutela inferiore: accertato che il rito camerale e' conforme
agli articoli 24  e  111  della  Costituzione  in  quanto  idoneo  ad
assicurate il «giusto processo» (Corte costituzionale n. 543/1989, n.
1/2002), si deve solo evidenziare che «... e' da escludere  che  ogni
rito processuale diverso da  quello  ordinario  possa,  di  per  se',
essere considerato in contrasto con l'art. 24 della  Costituzione,  e
cio' perche' questi ultimo non costituisce ... l'unico  ed  esclusivo
strumento  di  attuazione  della  garanzia   costituzionale»   (Corte
costituzionale  n.  543/89  cit).  Se   cosi'   e',   se   l'elemento
eventualmente discriminante e' un grado di garanzia  non  conforme  a
quello costituzionalmente garantito,  esclusane  la  ricorrenza  (nel
qual caso risulterebbe violati gli articoli 24 e 117, comma 1 Cost.),
rientra nella  discrezionalita'  del  legislatore  disciplinare,  nel
detto ambito costituzionale, le forme di tutela. 
    Peraltro molto si potrebbe discutere anche in ordine alla pretesa
omogeneita'  delle  situazioni:  il  procedimento  di   accertamento,
contestazione ed applicazione delle sanzioni amministrative delineato
dalla legge n. 689/1981 e'  ben  diverso  da  quello  piu'  complesso
delineato  successivamente,  ratione  materiae,  dall'art.  195   del
decreto legislativo n. 58/1998, dall'art. 24 della legge n.  262/2005
e  successivi  regolamenti,  sicche'  non  e'  irragionevole  che  il
legislatore, fermo un grado  sostanzialmente  omogeneo  di  garanzia,
abbia   voluto   disciplinare   diversamente   il   procedimento   di
opposizione. Infine deve ricordarsi che il doppio grado di merito non
e' assistito da  garanzia  costituzionale  (Corte  costituzionale  n.
80/1988, n. 78/1984 e n. 186/1990). 
    Sotto il profilo in esame (incostituzionalita' dell'art. 195  del
decreto legislativo n. 58/1998 per contrasto con l'art. 3  Cost.)  la
questione appare, quindi, alla Corte manifestamente infondata, mentre
essa  viene  sollevata,  in   quanto   ritenuta   rilevante   e   non
manifestamente  infondata,  in  relazione  al  primo  profilo   sopra
esaminato (incostituzionalita' dell'art. 195,  comma  7  del  decreto
legislativo  n.  58/1998  per  contrasto  con   dell'art.   6   della
Convenzione dei diritti dell'uomo in relazione all'art. 117 Cost.).